lunedì 8 dicembre 2008

INTERVISTA A DONATO BRAMANTE

2dicembre

INTERVISTA A DONATO BRAMANTE

Si sente un genio dell’architettura?

Penso di esserlo stato. Quando alla fine del 400, io e Leonardo volgemmo la nostra attenzione verso un sovvertimento degli aspetti più astratti della raffigurazione spaziale del primo Rinascimento fiorentino, iniziammo qualcosa di nuovo. Infatti quando la prospettiva non ci apparve più solamente come strumento scientifico per il controllato ordinamento e possesso dello spazio, corrispondente a istanze di carattere razionale, ma come un accorgimento che permette di soddisfare esigenze di natura visiva, mirante a suscitare un’emozione, riuscimmo ad offrire un contributo decisivo alla maturazione di una nuova consapevolezza delle novità rinascimentali.
Pur senza recidere i legami con l’arte gotica avviammo nell’architettura e nella scultura un nuovo corso di chiare aspirazioni classicistiche che aprì il secolo 500.

La sua opera più importante?
Un momento importante della mia vita e della mia carriera avvenne con la caduta del principato sforzesco. Dovetti recarmi nella Roma di Giulio II. Qui prosegui nelle mie ricerche di norme razionali assolute, e progettai il Convento ed il Chiostro di Santa Maria della Pace. Quest’opera fu un nuovo punto di partenza. Infatti mi preoccupai di individuare un principio di proporzionamento d’insieme, che stabiliva scientificamente la posizione e la dimensione dei singoli elementi architettonici sia in pianta che in alzato. Una volta scelto il quadrato suddividevo l’intera area a disposizione in un reticolo regolare che fissava le dimensioni degli ambienti, -cortile, refettorio e zona conventuale- e la posizione delle strutture portanti, mentre il medesimo modulo geometrico regolava le altezze, che nei due piani del chiostro erano proporzionate secondo la regola vitruviana che voleva il secondo ordine un quarto più basso di quello terreno.
Garantivo in questo modo all’organismo architettonico un rigoroso coordinamento delle parti fra loro e con l’intero edificio, conseguendo un risultato di valore assoluto.

Che ne pensa dell’architettura delle nostre città?

Alcuni progetti sembrano rivoluzionari. Pensate al progetto proposto dal coreano Daekwon Park.
L’architetto ha ideato un sistema di torri multiuso per collegare tra loro i grattacieli del futuro. Infatti i grattacieli si stagliano sulle metropoli diventandone facilmente l’icona con la loro sfida alla gravità e il valore simbolico che da sempre li accompagna. Ma è pur vero che l’unicità e l’isolamento che li contraddistingue rischia di dare luogo a un tessuto urbano frammentato, in cui ogni gigante fa vita a sé, quasi fosse una piccola città nella città. Ecco Symbiotic Interlock l’invenzione dell’architetto coreano Daekwon Park. Il quale propone un progetto che mira a trasformare gli agglomerati sempre più verticali del futuro, la cui espansione sarà favorita dalla necessità di dare risposta alla sovrappopolazione, in sistemi interconnessi ed ecocompatibili. Symbiotic Interlock evidenzia l’importanza della configurazione a moduli in grado di combinarsi tra loro e attaccarsi agli edifici esistenti in un rapporto di fusione architettonica. Viene a crearsi così una rete di torri di servizio formata da moduli che assolvono funzioni specifiche. Alcuni contengono turbine che convertono l’energia del vento in elettricità, altri sono nodi strutturali che si agganciano alle facciate o passerelle che connettono i grattacieli, altri ancora sono giardini o spazi chiusi per la vita sociale. Un’infrastruttura espandibile che, mettendo in comunicazione palazzi vicini con avveniristici ponti sospesi,ricorda lo sviluppo delle cellule neurorali.

Vuol fare un elogio ad un architetto del passato?
Vorrei fare gli auguri a Palladio per i suoi 500 anni. Ho potuto constatare che i contemporanei gli hanno dedicato una mostra –La grande mostra- con esposti più di 200 opere con fotogrammi unici ritrovati in oltre 80 musei del mondo e riportati in Italia, per raccontare la carriera di un grande genio. Palladio può ancora insegnare molto: infatti le sue opere raccontano storie di uomini che vissero i tempi difficili di una società in trasformazione. Una collettività che credeva in
un’ architettura che potesse servire a migliorare il mondo intorno a loro.
La vita architettonica di Palladio può essere letta come un percorso che a partire dagli anni 30 del 1500 attraverso le diverse esperienze, quelle di scalpellino, progettista di ville e palazzi vicentini, commesse veneziane, mostra in tutto il suo splendore l’età del manierismo.
Vorrei ricordare che Palladio riuscì con grande bravura e progettare edifici grandiosi che rispecchiavano l’orientamento culturale dei committenti, volto ad un recupero del linguaggio dell’architettura classica e secondo la tendenza espressa dai più aggiornati circoli umanistici veneti, ma che ottemperavano anche a precise esigenze funzionali derivanti dallo svolgimento dell’attività agricola. Ciò si rifletteva nella struttura stessa delle ville, che conciliavano la dignità di motivi architettonici ispirati agli edifici antichi -come l’utilizzo di fronti colonnate con timpano, tipiche del tempo classico-, con la funzionalità di parti adibite ad uso agricolo -come portici, arcate e depositi-, e con l’uso di materiali poco costosi.
Le ville palladiane possono insegnare ancora molto agli architetti contemporanei. Suddivise in due tipologie, quella in cui prevale lo sviluppo orizzontale su un unico piano, costituito da un corpo centrale più importante, destinato alla residenza dei proprietari, da cui si ripartono due ali laterali porticate, dette barchesse, a uso agricolo (esempio Villa Badoer a Fratta Polesine), e quella a blocco centralizzato a due piani, che presenta una facciata a fronte di tempio (esempio Villa Cornaro a Piombino Dese). Queste ville collocate nelle vicinanze delle città sono l’espressione di un’armoniosa integrazione tra civiltà e natura che si esprime nel rapporto continuo tra architettura e paesaggio.

Per lei chi è il più grande architetto di sempre?
Non ho molti dubbi a riguardo: Charles Edouard Jeanneret, detto Le Corbusier.
Affascinante l’idea de IL PIANO PER UNA CITTA’ CONTEMPORANEA di tre milioni di abitanti presentato nel 1922. Al centro una piattaforma doveva fungere da aeroporto con più livelli sottostanti per il traffico delle auto, della metropolitana e dei treni regionali; attorno ventiquattro grattacieli per uffici e, più esternamente, le residenze composte da edifici a sei piani à redents, a incastro, immersi nel verde.

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